




L’autunno è quasi sempre così, è quella stagione in cui si ripuliscono le camme dei friend, li si sistema per bene come dei gioielli preziosi e si torna a fare il conto con i vecchi nemici: il trave, insindacabile giudice di quanto l’estate porti via ogni massimale che nel mio caso però per fortuna è sempre stato basso e le falesie, quel luogo ameno dove il gesto atletico viene ripulito di qualsiasi altro suo connotato, lasciandoti solo quella manciata di scuse ridicole che ricicli a turno “c’è umido” “fa freddo” “ieri ho bevuto” “mi fa male un gomito” “mi fa male l’osso sacro che lo so che non c’entra nulla con la scalata ma che cazzo”.
Ho iniziato a scalare in un periodo strano, sia storicamente sia della mia vita. Ho incontrato la scalata a ridosso del Covid, il che ha significato che l’ho presa sui denti alla grande nel giro di poco e poi, soprattutto, ho iniziato a scalare in concomitanza (e valla a sapere come si influenzano le cose, se nascon prima le uova o le galline insomma) con un periodo di grossi cambiamenti nella mia vita. Cambiamenti per altro che si son rivelati giusti, buoni seppur come ogni cosa giusta e buona, molto sfiancanti. Sta di fatto che quando ho iniziato a scalare i capelli bianchi non li avevo mica e saltavo ancora i fossi per la lunga, invece di sicuro non si può più dire la stessa cosa adesso.
Ho iniziato a fare sport che manco me lo ricordo, nel senso proprio che i primi allenamenti nella mia memoria coincidono con i miei primi ricordi d’infanzia. Cosa abbia significato allenarsi per me è qualcosa di molto delicato, a tratti fragile e intimo, senza dubbio qualcosa che mi ha accompagnato tutta la vita, con numerosi bassi e anche qualche alto. Rientro in quella categoria di persone che si son ritrovate, a 30 anni suonati ormai da un po’, ad essere il benchmark di riferimento per gli amici di una volta “eh ma tu sei sempre in forma”, mentre mi trascino in giro tra acciacchi vari e faccio spallucce pensando che lo stato di “forma” che ho in mente io non è mai arrivato proprio. Se senza dubbio ammetto che me la porto bene l’età che ho, son pur sempre 30 suonati da un pezzo, i tempi di recupero me lo ricordano bene, la capacità di sviluppare nuovi schemi motori latita o comunque è lenta, le ore di sonno necessarie sono direttamente proporzionali a quelle dormite di merda mentre altaleni tra il bisogno di andare a letto prima delle 22 e l’impossibilità fisica di dormire più di 3 ore senza svegliarti a caso. Ogni tanto ripenso sognante a come diamine facevo ad alzarmi alle 6, andare a scuola, tornare a casa, allenarmi 4 ore e diplomarmi al classico senza aver ancora imparato l’italiano e niente, sono convinta ci fossero le anfetamine nei cordon bleu che mi mangiavo per pranzo, perché ci manca solo scoprire dov’è la sciatica e stiamo in una botte de ferro.
Quando si avvicina il ponte dei morti, dal pallottoliere del dove andare la scelta ricade su Cimbergo e sulle sue famosissime placche appoggiate, sì, ma al contrario. Ale con i pargoli e il socio sono già partiti venerdì sera, io Fabio insieme a Giorgio e Ila li raggiungiamo sabato sera. Domenica ci raggiungono anche Rava, Peve, Lalo e Mauro. Siamo un bel po’, ma tanto stampa solo Ale.
La domenica parte bene, ci illude il giusto, proprio prima che il sole scaldi inesorabilmente le tacche io e la Ila ci portiamo a casa un bel 6c di movimento, sarà anche l’unica gioia del weekend perché poi mi schianterò contro un tiro al paretone che richiede una presenza fisica che nel mio caso infatti si dimostra assenza. Faccio i singoli e singoli restano, come le bollicine di sodio dell’acqua Lete. Il lunedì mattina nemmeno in tempo ad aprire il portellone della macchina e vediamo i due figli di Ale, di rispettivamente 9 e 8 anni, appesi sugli anelli nel parco giochi di fianco a dove abbiamo dormito, mentre io cerco di capire quale parte del corpo mi fa più male loro per non sbagliare è mezz’ora che sono appesi a testa in giù e saltellano felici. Ore 9 del mattino. Cosa cazzo è successo in questi 20 anni scusate?
Il martedì rimaniamo soli io e Fabio, cambiamo settore ma non musica: dopo un paio di tiri di scaldo, al secondo tentativo, fallimentare, la pioggia pone fine al mio supplizio costringendomi a smontare il tiro che stavo provando. Che peccato. Ritorniamo a casa in una Brianza piovosa dove ormai (e finalmente) c’è aria d’autunno e dove ci metteremo una settimana buona a testa per tornare a sentire i muscoli della schiena in uno stato non pietoso. Ogni età ha le sue, comunque sia è bello il modo in cui son diventata trentenne (e qualcosa). Dico davvero, anche se me ne lamento spesso, alla fine voglio bene a questo corpo e soprattutto voglio bene a questa testa che abito.
Io credo comunque che la passione sia questo, sia la capacità di restare, di navigare attraverso le ondate, di riscoprirsi, in fondo ogni volta che penso all’arrampicata mi si annuvolano mille pensieri e ricordi in testa, tanti, tantissimi fallimenti e tentativi andati davvero a vuoto, qualche bella soddisfazione, tante giornate frustranti, prese intenibili, spit troppo lontani, pareti con troppi gradi di pendenza ma alla fine ora che ci penso bene, in nessun momento, mai, ho pensato di fare a meno di questo mondo.
E comunque non pensi mai di invecchiare, o meglio non ti accorgi di farlo. Finché non ci metti 5 giorni a recuperare per due strapiombi stronzi e non ti lamenti per tutta la settimana successiva come un disco rotto della stessa cosa. Ossia che i panni appena lavati, con ‘sto tempo de merda, s’asciugano a giugno e comunque al Trony c’è l’offerta sugli elettrodomestici, prendi 3 paghi 2. Ci abbiamo passato il martedì sera, a sceglier l’asciugatrice.