
















Arrampicando ho imparato un sacco di cose, tranne arrampicare bene. Me la cavo, a volte meglio, altre meno meglio, altre ancora “blocca e cala che già la vita fa terrore, figuriamoci stare un paio di metri sopra gli spit o peggio ancora, sopra un friend, micro magari”. Va così, a volte meglio, altre peggio. Comunque non è qualcosa che ho mai messo in discussione, anzi, ho imparato ad accettare e attraversare i momenti che vivo nei confronti dell’alpinismo contestualizzandoli nel resto della mia vita, come sto, cos’altro mi sta impegnando la testa, quanto e come riesco ad allenarmi, quanto e come ho voglia di spingere. Delle cose che ho imparato, soprattutto quest’anno, una delle più belle è guardare il quadro d’insieme. Per quadro d’insieme intendo che conosco molte persone bravissime a scalare, i cui equilibri nella vita fuori da ciò che riguarda l’alpinismo e la roccia sono più precari del mio equilibrio sui 7a. O persone che si bruciano, dando per certi periodi tutto, per poi spegnersi nella frustrazione non riuscendo a navigare attraverso i periodi meno floridi. Credo che le passioni, che sono alimentate poi dal medesimo slancio di cui si nutre l’amore, debbano come quest’ultimo essere distinte dall’innamoramento: bisogna munirsi di pazienza, caparbietà e capacità di permanere, di creare stabilità, rafforzandosi e consolidandosi.
Non è stato nè un anno positivo nè negativo, qualcosa ho fatto e il più delle volte l’ho fatto in maniera serena, qualcosa è rimasto nell’eterno file delle salite che prima o poi, o forse mai. E questo perché alla fin fine ho iniziato a scalare quando avevo 29 anni, avevo un lavoro, un mutuo e la vita mi aveva già anticipato parecchi trailer per niente simpatici. Poi è solo andata peggio. Ho fatto tutto quello che era giusto fare, con coraggio se devo essere onesta ma il coraggio spesso è il rovescio della medaglia delle strade in salita, tortuose e piene di pedate nel culo. Quando mi fermano per strada per chiedermi di firmare contro la droga rispondo di no, non scherziamo, lascia stare che forse mi serve!
Potevo fare di più, allenarmi di più, bere più acqua, ricordarmi più compleanni, leggere più libri. Ma forse in fondo, ad essere onesta, no, non potevo davvero, non senza conseguenze e riconoscere quel confine a 32 anni mi ha permesso di capire che se da un lato supporto carichi emotivi e fisici davvero inaspettati perfino per me, dall’altro 10 trazioni in più al mattino non sempre sono indice di costanza e salute, quest’anno a me sarebbero costate l’esaurimento.
Detto ciò ai Satelliti di vie da fare ne ho in mente una 20ina almeno, alcune di queste possibili, altre quando mai dai siamo seri, altre possibili ma non quest’anno. Decidiamo, con Rava e Fabio, di fare due giorni in quota e sinceramente sono felice quasi più che Fabio riesca a scalare finalmente ai Satelliti, delle vie in sè si vedrà. In quota non ha mai avuto modo di andarci ma alla fine, come prevedibile, portare qualcuno che ha una certa solidità di grado e pure di testa in certi ambienti è davvero come guardare un bambino nel negozio di caramelle.
Saliamo su sabato mattina con la prima funivia, lasciamo la tenda e ci incamminiamo verso le guglie. Il tempo non è dei migliori, addirittura viene giù qualche goccia, c’è nuvolo e all’inizio dispiace ma nelle prossime 48 ore pregheremo per una nuvola. Il panorama è a dir poco triste, non ho mai visto il ghiacciaio in quella zona così: gli attacchi ad alcuni dei satelliti richiedono una via di 5 tiri marci sul IV per arrivarci (Grand Capucin soprattutto), non esiste più nessun canale di neve da nessuna parte e dove la neve non c’è i sassi ballano e rotolano a valle. Le terminali sono brutte, aperte ovunque e di molto. Perfino scendendo dal Col Flambeaux passiamo un crepo gigante in una zona dove spesso sono andata slegata e senza alcun pensiero, il giorno dopo risalendo infatti faremo una traccia molto più larga e ampia, perché passarlo in salita richiede allestire una sosta, ormai è troppo aperto. Mi fa tristezza guardarmi attorno, due anni fa in questo periodo facevo la Kuffner al Maudit e l’accesso che ho fatto io ora è semplicemente impraticabile, di fatto non saprei da dove e come attaccarla la Kuffner ora, la nord della Tour Ronde è una sinfonia di scariche di sassi tutto il giorno, la combe Maudite nella zona dell’Androsace anche. Il Dente del Gigante inavvicinabile.
Dopo due calcoli su cosa fare, considerato che abbiamo anche aspettato un pochino perché asciugasse la roccia ci dirigiamo alla Chandelle, una struttura dietro il Grand Capucin che ci risulta più accessibile. Facciamo la Bonatti-Tabù, una via intorno al 6a-6b che trovo bellissima. Non è lunga ma tutti i tiri sono validi, ci sono solo le soste e la cosa mi va bene. La via ce la dividiamo io e Fabio, Rava in realtà la via l’aveva già fatta parecchi anni fa, i tiri sono davvero da antologia. Il mio secondo tiro è un 6b in fessura sul quale faccio un revival dell’apertura della via: in artificiale tutto, mentre Fabio in alto farà una fessura di 6b+/6c a dir poco spettacolare ed estetica. Arriviamo in cima insieme alla cordata di ragazzi polacchi che fanno Ligne Blanche di fianco a noi e ci caliamo lungo la via, risaliamo alla tenda nel dedalo di crepi e Rava ci sorprende facendo niente meno che una carbonara per cena. Ci infiliamo nei sacchi a pelo vagliando le alternative per il giorno dopo, collassiamo e ci addormentiamo subito. In tre in tenda, coi sacchi a pelo pesanti, abbiamo caldo perfino di notte.
Il giorno dopo il sole torna a splendere sul ghiacciaio. Mannaggia al signore quando mai ieri ho chiesto che ci fosse del sole. Partiamo per l’avvicinamento e fa già caldo. Siamo diretti alla via Petit Capoussin al Roi du Siam, sulla struttura del Petit Capucin. Attacchiamo troppo presto perché ci siano già quei gradi e non intendo di arrampicata. La via, rispetto a ieri, è molto più placcosa e dopo un po’ di tiri (che fa Fabio comunque molto contento della roccia) in cui dobbiamo continuamente spingere le punte dei piedi, arriviamo in sosta senza seriamente più voglia di finirla! La via, per quel che abbiamo fatto, è molto bella e meritevole, però scalare con la sensazione di essere in un forno, per di più in placca, è bruttissimo e ci fa venire voglia di spazzarci semplicemente via. Quando ritorniamo alla base passiamo parecchi minuti a pucciare i piedi nella neve, per rinfrescarli.
Mentre torniamo alla tenda sfondo per la prima volta in vita mia in un crepo, nel punto per altro più pianeggiante del ghiacciaio, prima di risalire verso il Torino. Prevedibile. Di fatto penso che se ci fossi finita dentro del tutto per un secondo potrei davvero aver pensato “recuperatemi sì ma piano, che tutto sommato qua sotto non si sta poi così male”. Ci sono 20 gradi, quando arriviamo alla tenda mettiamo il Montenegro che abbiamo portato in quanto parte obbligatoria della NDA in una buca nella neve per raffreddarlo prima di poterlo bere.
Mentre smontiamo tutto e iniziamo a sistemare la cordata dei polacchi che abbiamo conosciuto ieri rientra dal Grand Capucin, anche loro ribattuti in parte dal lungo e tortuoso avvicinamento e in parte dall’idea che alla fine all’inferno, che è l’unico posto dove se iddio esiste potrò mai finire, converrà tutti cambiare sport perché l’arrampicata decisamente non si presta molto a quelle temperature.
Ci ubriachiamo il giusto tutti insieme, prima di fiondarci in funivia. Una volta giù, senza nemmeno pensarci due volte, prima di ritornare a casa saliamo verso il parcheggio del sentiero del Monzino e ci tuffiamo nel fiume ghiacciato. Antò, ti giuro che quando c’era in giro la pubblicità, non faceva così caldo, ora davvero faccaldo.