















Avete presente la scena di Leonardo Di Caprio in The Revenant, quando rincorso dall’orso cade giù dalla scarpata nella neve e da lì, sanguinante e moribondo, si trascina gattonando verso una salvezza che gli ha portato un Oscar direi più alla carriera che, si spera, per quello schifo di film?
Ecco, sono le 18.30 di sera, buio pesto e mentre mi trovo a gattonare nella neve penso che almeno io non vengo inseguita da un orso. Poi mi ricordo che sono in Dolomiti di Brenta, una delle zone con maggior concentrazione di orsi quindi mi taccio, cerco di gattonare più velocemente che posso e penso che ci son tante cose in questo momento che potrebbero andare peggio. Tipo potrebbe esserci vento. Oppure mi si potrebbe rompere lo zaino mentre cerco un paio di guanti seri e asciutti e non queste schifezze di sottoguanti buoni solo per bere il vov alla funivia, ormai fradici e congelati. Ah no aspetta, lo zaino invece si rompe, come non detto. Gli orsi invece sono in letargo, ma valla a sapere col riscaldamento globale e poi vorrei vedere voi, in quella situazione, se non iniziate a pensare a tutto ciò (di altro) che può andare male.
Gattonare è una tecnica importantissima, appresa tra i 6 e i 12 mesi di vita, che tendenzialmente non pensi mai possa di nuovo tornare utile fino a che. Fino a che io, Luca e Ange decidiamo di andare a fare “La via che non c’è”, alla Cima Brenta. Sappiamo che il Pelo l’ha ripetuta qualche giorno prima e che è in buone condizioni, quindi cerchiamo di andare a colpo sicuro. Per salire al bivacco invernale del Tuckett ci sono due possibilità, o il sentiero che sale alla Baita Casinei e poi tagliando verso il Tuckett, 700 metri di dislivello, o prendendo la cabinovia Grostè e da lì attraversando con sali e scendi per soli 200 metri di dislivello si arriva uguale.
Voi cosa avreste scelto? Tra l’altro una relazione trovata online parlava di 40 minuti. Ma l’alpinismo ha una certa etica e il Dio dell’Alpinismo infatti ci vede e provvede, punendo noi scansafatiche che cerchiamo la via più semplice. Ah non li vuoi fare 500 metri in più? E allora io ti ho due metri di neve farinosa non portante in cui camminare con in spalla uno zaino con corda-chiodi-friend-imbrago-ramponi-picche-sacco a pelo-jetboil-cibo-nessuna speranza perché quelle pesano e tanto vengono deluse.
Bhè, è finita che abbiamo sfondato nella neve per 4 km, che son stati anche i 4 km più lunghi che abbia mai percorso in vita mia, che ad un certo punto per uscire dalla neve gattonavo perché pensavo che la superficie di appoggio su stinchi e avambracci fosse maggiore e ho seriamente pensato di raggiungere il bivacco così, prima di capire che ero ridicola. Mi sono legnata gli stinchi sfondando nella crosta al punto che il giorno dopo in mezzo a tutti quei lividi c’era anche della pelle sana, stranamente. Quando arrivo al bivacco mi sembra impossibile pensare che il giorno dopo devo farmi 8 tiri di ghiaccio, sono demolita, ho freddo, fame, sono bagnaticcia e ho le gambe molli.
Quando arriviamo al bivacco inoltre, che devo ammettere è stupendo e fornito di letti, coperte pulite, cuscini e materassi in ottime condizioni, troviamo tutti i letti occupati: s’è sparsa la voce che la via è in condizioni e ci sono un sacco di cordate, di cui alcune di ragazzi cechi venuti apposta qui per ripeterla. Tra l’altro loro dormono fuori, perché sono cechi. Si sa che se nasci col dna ceco probabilmente il latte materno te l’hanno allungato col metadone e l’alpinismo in qualche modo ti sembra un po’ un allegro gioco di compagnia da fare in famiglia. Io in compenso arrivo al bivacco senza il materassino, non pensando che davvero avrei trovato tutti i letti occupati. Siamo in 18 dentro (posti letto comunque ce ne sono 8, di cui 3 quasi matrimoniali). Però si capisce che ispiro pietà e uno dei ragazzi mi lascia 80 cm di doghe e mi presta il suo materassino autogonfiante. Mi rintano nel sacco a pelo, l’umidità dentro è del 99%, in queste situazioni non riesco quasi mai a dormire davvero. Sonnecchio, penso alla via, penso che ho già le gambe demolite, sono umida per la ravanata nella neve e tremo, mi viene da rigirarmi ma penso che il socio che mi ha ceduto 80 cm di doghe poi, giustamente, mi ammazzerebbe quindi mi metto su un fianco rannicchiata e aspetto che suoni la sveglia.
Ore 04.30. In questi casi pure meglio, la sveglia pone fine a questo strazio delle notti passate bivaccando.
Per un attimo mi rendo conto, per l’ennesima volta in questo genere di situazioni, di essere l’unica donna. Su 18 persone. E’ qualcosa a cui ho iniziato a fare il callo, però la noto sempre. E’ una questione di rappresentazione, lascia sempre addosso quella sensazione innata del vedersi diversi in un contesto, che ti fa pensare “ma io che cazzo ci faccio qui?”. Cosa che però penserei a prescindere quindi cerco di non sentirmi la solita mosca bianca. Per ambientarmi e omologarmi al gruppo rutto di gusto, credo sia un linguaggio che gli altri percepiscono come “amico”.
Comunque le sveglie presto nei bivacchi sono meccaniche. Ti alzi e sai già la successione dei vestiti, il materiale, il thè nel jetboil che puzza di zuppa ai cereali Knorr liofilizzata della sera prima, ingurgiti due biscotti che non mastichi mai del tutto e ti fanno solo venire la nausea, qui non si tratta di fame, ma di sapere che sarà l’ultima cosa che mangerai per le prossime 12 ore quindi vedi di fartela bastare, frontale accesa, poche parole e si inizia a camminare.
Dopo circa un’ora e mezza in cui io mi chiedo se almeno ce li ho dei polmoni o magari si sono atrofizzati, arriviamo per primi all’attacco: fondamentale su ghiaccio per evitare mitragliate delle cordate di sopra. Cosa che non eviteremo lo stesso, ma dal basso di chi cazzo sono io per dirlo, lascerò qui scritto tra le righe, toccandola piano, che se si supera una cordata poi però la devi superare davvero, non è che fai le finte che alla sosta dopo ti trovo ancora lì. La cordata in questione, con la quale ci troveremo dunque puntualmente ad ogni sosta, è composta da tre persone. Tira sempre uno dei tre, stessa formazione nostra che lasciamo tutto il lavoro sporco ad Ange, che comunque se lo sobbarca volentieri e che ormai su ghiaccio ha un livello tale per cui mi stupisco che non ci abbia mollato per scalare coi cechi, e poi siamo in troppi oggi e mettersi a girare le corde sarebbe un casino. Io su ghiaccio ho l’esperienza di un poppante che si ciuccia il dito, infatti sono una che la sera prima gattonava nella neve, dai. Però in generale ho imparato prestissimo le tecniche migliori per sopravvivere. Ho fatto di necessità virtù. Ho imparato ad azzerare, scalando, in tempi record, ho imparato prestissimo che il ghiaccio quando è già bucato ti devi solo baciare i gomiti e agganciare. E l’ho imparato a spese del polso e del braccio per battere che non ho, mica perché sono brava ma solo perché altrimenti esplodo dopo due tiri. La cascata conta una lunga serie di ripetizioni in questi giorni ed è trivellata. Quindi la domanda che a me e Luca, che seguiamo Ange, sorge spontanea mentre questa cordata prova a superarci per poi stare 3 metri sopra, farci fischiare roba addosso e fare un casino con le corde che la metà basta: ma che ti picchi che son acquesantiere? Ma se non sai cosa farne con quelli avambracci conosco certi lavori in miniera che fanno il caso tuo! Ma poi chi pensi di essere, Attilla flagello diddio, che passi tu e dietro di te non la deve più ripetere nessuno, che è, un videogioco che la devi smontare mentre sali così torna V come la danno sulla relazione? T’è venuta fuori la vena da maschio alpha che questa cascata o è tua e basta o allora che non sia di nessuno, ma già che ci sei pisciami in sosta e facciamola finita. E poi dai, un po’ di eleganza, almeno da due. Non siamo in miniera, è ghiaccio, è delicato, son tempi bui per tutti, avanzala alle cordate di domani. Quelli che scalano su ghiaccio così devono essere quelli che a far sesso pensano sia divertente il martello pneumatico, fai piano, che poi vieni in tre minuti ed è finita la festa.
La tocco piano.
Io faccio il mio, non frigno, stranamente mi sento a mio agio nel disagio, mi sarebbe piaciuto fare qualche tiro da prima viste le condizioni, però quando c’è ressa c’è ressa e purtroppo da prima su ghiaccio ho l’efficienza di una tartaruga centenaria in menopausa, non proprio adatta per una giornata con altre 5 cordate in giro, otto tiri, sei doppie e 15 km di sfacchinata al rientro.
Scendiamo con la luce e prendiamo ovviamente il sentiero che scende dalla Baita Casinei, quando arriviamo a Madonna di Campiglio mi butto letteralmente sotto la macchina di una donna, chiedendo uno strappo per ritornare al parcheggio. Lei non fa nemmeno in tempo a dire di no che le ho già infilato Ange in macchina. Ce l’abbiamo fatta, anche oggi.
Io non credo che l’alpinismo in sè sia divertente. In nessuna delle culture che conosco, a meno che uno non ritenga per davvero ludico il masochismo. In “Confessioni di un serial climber”, Twight dice che “divertirsi non deve per forza essere divertente”. Ho preso molto le distanze da quel libro, che ho trovato spiacevole sotto molti punti di vista, però è vero che divertirsi in qualche modo non deve per forza sempre essere divertente nel senso canonico. Non c’è di fatto nulla di esperienze così che prese a sè stanti risulterebbero in alcun modo spassose. Le sensazioni altalenano spesso tra la stanchezza e la paura.
Però quando scendiamo, con ancora la luce, mi giro e finalmente vedo la via salita, che al mattino col buio non avevo visto, siamo in un vallone immersi tra pareti altissime, mi fa già male tutto e so che domani sarà solo peggio. Ma ogni volta mi stupisco di quanto si riesca a resistere, fisicamente e mentalmente. Di quanto “non ce la faccio più” non sfiori nemmeno la superficie delle risorse che abbiamo. E vorrei tanto ricordarmelo sempre, che non è affatto vero che non ce la si fa più, ma mica solo in montagna.
Se penso alla mia vita, senza andare nei dettagli, mi sembra somigliare molto a quei 4 km a gattonare e sfondare nella neve. Però m’ha insegnato a vedere il bello, nelle cose. M’ha insegnato a meravigliarmi. M’ha insegnato che la passione, l’amore, qualsiasi cosa vi abbia fatto venire voglia di pensare di esser fortunati d’esser nati, quella cosa, quelle persone, quei momenti hanno una forza dirompente e nonostante 4 km a gattonare nella neve comunque sia, ne è valsa la pena, rifarei tutto da capo, alla fine è servito per arrivare qui e qui, in questa testa e in questo corpo, con la potenza che hanno certe giornate di farti sentire vivo e a giudicare dalle persone che ho attorno, qui è un posto in cui vi auguro di arrivarci, perché vorrei che si capisse quanto è bello sentirsi così grati.
Bravissima, bellissimo il tuo racconto, sia nella descrizione delle situazioni,sia nella continua autoironia che nelle conclusioni esistenziali
paolo
Ciao Paolo, grazie per il supporto e per le parole! 🙂 Benvenuto da queste parti!
Mi è piaciuto molto il racconto e soprattutto l’ironia oltre che i paralleli tra tritaghiaccio e maschi alpha. So che al Pelo hanno rubato il fornello al bivacco, peccato incontrare gente così. Buone gite
Conosci il Pelo? Non sapevo gli avessero rubato il fornetto, mannaggia! Noi abbiamo lasciato al bivacco chiaramente le cose che abbiamo usato per mangiare e dormire e per fortuna non ci è sparito nulla, nonostante la calca di gente che c’era. E’ sempre spiacevole quando succede!