Faccio il chiave abbastanza stupita di me stessa, ma poi, sempre senza aspettarmelo, cado in catena. Un po’ di tempo fa per una cosa simile avrei pensato subito una cosa: che valgo meno come persona. Che non ho fatto abbastanza, non sono stata abbastanza brava, non mi sono allenata abbastanza, che insomma non ho fatto i compiti, che è colpa mia. In fondo, anche se non lo si ammette mai, parte della nostra autostima dipende non solo dal grado ma anche da come gli altri percepiscono il nostro grado e modo di scalare. Insomma, dipende dall’approvazione altrui, per alcuni di più per altri di meno ma vale un po’ per tutti e fa cagare.
Invece la cosa più buffa è che provo una sensazione nuova. Del tutto nuova, ma proprio nella mia vita. Certo sono arrabbiata lì per lì, ho una pessima gestione dei fallimenti in generale e me ne sono concessi pochi (ma buoni) nella vita, è un tiro che non avrei mai nemmeno pensato di provare, mi viene il sospetto di averlo scelto apposta per questo, per fallire: 18 metri di boulder con successivo ribaltamento, intervallati da provvidenziali riposi, in strapiombo marcato. Sul mio grado limite. Certo, cadere in catena mi scoccia non poco considerato che poi il giorno dopo ho in programma di andare via dieci giorni in bicicletta e di arrampicare se ne riparla a settembre. Però per la prima volta dopo tanto, tantissimo tempo, non penso di valere meno come persona se fallisco un tiro. Non mi sento giudicata. Non m’importa, è un tiro, vorrei chiuderlo, ma in questo momento, appesa all’ultimo rinvio prima della catena, non mi sento una persona meno degna di essere apprezzata per questo.
Dell’arrampicata, la cosa che più mi piace è la medesima caratteristica che mi distrugge nei giorni neri: la componente psicologica. Più ci penso, mentre pedalo su per il Passo della Cisa in direzione Toscana qualche giorno dopo quel fallimento, più mi rendo conto di questo. Qualsiasi altro sport ripone nella fatica la sua componente chiave; saper gestire le proprie energie è un gioco di testa che ci deve sempre essere. Siamo meno stanchi di quanto pensiamo di esserlo, quasi sempre. Se pensi di non poter correre altri 5 km probabilmente ne puoi correre altri 10, è lì la chiave di volta. Ma l’alpinismo e l’arrampicata hanno portato questo gioco ad un livello successivo: non si tratta solamente di conoscere davvero il proprio limite fisico e saperlo superare ma entrano in gioco altre componenti, le migliori o peggiori, armi a doppio taglio, croce e delizia: se pensi di cadere e hai paura non sali, nemmeno su gradi sui quali in realtà sali eccome. Quando invece il gioco funziona e tutto gira le protezioni nemmeno esistono, il gesto è meraviglioso. Dell’arrampicata mi piace questo, quel momento in cui il gesto supera la paura, in cui le idee si schiariscono e il respiro scorre. Fare 450 km in bicicletta nei successivi quattro giorni non è stato facilissimo ma superata la componente “fatica”, la testa si spegne e va da sè. Arrampicare è diverso.
Appena rientrata dalla Toscana quella catena mancata mi ritorna in mente. Di progetti ne ho sparsi un po’ nel corso del tempo, direi uno in ogni falesia, non è che abbia poi in realtà mai speso troppo tempo o giri su un tiro. Di sicuro non pensavo di tornare a riprovare un tiro del genere, ossia non del mio genere.
Mi domando cosa voglio dimostrare? C’è qualcosa in quel tiro che mi accompagna da casa mia fino a Fidenza, al Passo della Cisa, a Pisa e San Gimignano, c’è qualcosa di quel tiro perfino nelle ribollite che mi mangio e non so cosa. Cerco di analizzarmi e non ci riesco, la cosa mi manda sui nervi, di solito mi capisco sempre, di solito, magari mettendoci tempo, capisco sempre.
Quando torno a provarlo inizio a capire cosa c’era sotto: è l’essere tornata, l’averlo ritenuto e quindi essermi ritenuta abbastanza. Dietro 18 metri di roccia ci sono spesso tantissime idee, in questo periodo per me la più importante di tutte è combattere la voce che mi ha accompagnato per 31 anni e mi ha ripetuto che non sono capace. Un banale credere in me stessa, ritenere le cose possibili. Volermi finalmente bene. 18 metri di roccia appena, valla a spiegare a chi non scala.
Arrivo in catena e quando ci passo la corda dentro sono certo felice, è un 6c che in questo momento per me vale oro. Ma c’è una sensazione che prevale su tutte, opposta a quella del fallimento di dieci giorni prima ma uguale identica nella sua complessità: sono felice di averlo chiuso ma non mi sento migliore come persona, questo 6c non mi rende più meritevole di stima o affetto, nessuno dei miei obiettivi raggiunti nè dei miei fallimenti dovrebbe incidere in questi termini. Sorrido, sono felice. Nessun grado definisce il valore umano.
Comunque il Crap della Nona è una delle falesie che ho frequentato di più quest’estate riuscendo a chiuderci parecchi tiri e a passare delle giornate inaspettatamente belle. E riuscendo soprattutto nell’obiettivo principe di giugno: non andare nemmeno una volta, in tutta l’estate, al Nibbio.
Non me ne vogliano i locals….