Da che io abbia memoria lo sport mi ha accompagnata crescendo insieme a me: all’inizio per gioco (e per sfinimento dei miei genitori dato che ero la classica bambina che per farla star buona, dovevi spararle), poi l’atletica in particolar modo è diventata agonismo, poi c’è stata una rottura netta e due anni fa ho incontrato l’alpinismo. Mi ricordo che quando avevo 4 anni l’allenatore mi diceva che “il cioccolato lo mangia la mamma, tu la stagnola!” facendo riferimento ad una cultura alimentare rigida, assolutamente da inculcarmi nella testa. E ci sono riusciti: ad inculcarmela.
Ho smesso di fare atletica ormai 12 anni fa, ho fatto gare splendide e ho dato tutta me stessa, mi son fatta venire le cosce esili come due prosciutti San Daniele e poi ho mollato per esaurimento. Mi son presa una pausa, ho vagato nel nulla per un bel po’, addirittura non ho più fatto sport in nessuna sua forma per un po’ di anni e poi ho incontrato la montagna, incontro che, da copione, non si è fermato al semplice “facciamoci una gita la domenica” perché non è né mai sarà la mia natura, me ne faccio una ragione. E nel mentre il mio corpo, come il bosco fa con i luoghi disabitati, si è ripreso il suo spazio, giustamente. Non ho più nemmeno l’ombra degli addominali che avevo, comunque li odiavo allora tanto quanto odio la pancetta che ho oggi.
Nei miei ultimi anni di agonismo mi allenavo circa 4 ore al giorno e chiaramente ogni settimana c’era un test da superare: massa grassa, massa magra, educazione alimentare rigidissima. Talmente rigida da diventare una seconda pelle, talmente rigida da diventare un’ossessione.
Quando ho pensato questo sito, non l’ho pensato per raccontare delle mie mirabolanti esperienze alpinistiche degne del Piolet d’Or, mi son resa conto che l’alpinismo tocca in modo trasversale un’innumerevole serie di questioni private delle quali invece vorrei pian piano parlare: l’equilibrio tra lavoro e tempo libero, tra la mia vita privata e il tempo dedicato alla montagna, la mia attenzione verso l’ambiente, le riflessioni sui limiti dell’essere umano e non da ultimo il mio rapporto con il mio stesso corpo.
Fino ai 13 anni circa ho avuto dalla mia una costituzione molto esile, quando ho iniziato a gareggiare più seriamente e in concomitanza ad entrare in quella meravigliosa fase della vita che grazie al cielo finisce, ossia l’adolescenza, un’ondata di estrogeni hanno fatto il loro dovere rendendomi la vita un po’ meno facile. Nello shaker gli ingredienti c’erano tutti. Manie di perfezionismo? Ce le ho! Disturbi ossessivo compulsivi: check (e non per modo di dire!). Incapacità di accettare il fallimento: hai voglia! Sindrome da prima della classe: vaccabboia, da vendere!
Non mi ricordo esattamente quando ho iniziato a contarmi le calorie, mi ricordo però che ad un certo punto mi son resa conto di saper quantificare, ad occhio e con un margine di errore bassissimo, le calorie e la composizione dei macronutrienti di qualsiasi cosa ingerissi: una laurea in nutrizione presa all’università della vita, che culo. Dietro l’agonismo (almeno dei miei 15 anni) c’erano amenorree diffuse, corpi non sviluppati correttamente, precoci danni ai tendini o legamenti. Ci ho messo anni e per anni ne intendo 10 per capire che l’aumento della massa grassa era l’unico modo per avere le mestruazioni.
Cosa c’entra tutto questo con questo sito?
Qualcosa c’entra. C’entra perché prima di scalare togliendomi la maglietta e rimanendo in top d’estate mi son quasi fatta venire gli attacchi di panico: non sopporto la mia pancia, figuriamoci strizzata nell’imbrago. C’entra perché quando scalo da prima non solo ho paura di morire, di cadere, di fallire, ma ho anche il timore che se mi appendo l’imbrago mi fa sembrare una specie di elefante. E non importa che i miei fianchi siano per altro perfettamente nella norma di un corpo standard della mia età, importa che lo penso io e quel pensiero occupa uno spazio enorme nel mio cervello. C’entra perché non conto nemmeno le foto che non ho pubblicato, scattate in montagna, perché “sembro obesa”, “madonna ma che gambe ho”, “ho il culo che fa regione, non provincia”.
Ho parlato poco delle sciate di quest’anno, anche se è una delle cose che ho fatto di più: la stagione invernale lato neve sembra una delle più belle degli ultimi anni. Ne ho fatte parecchie bellissime, tre in particolar modo ossia il Marnotto da Nord (1.400 di dislivello e una discreta discesa da sogno, a picco sui fiordi comaschi!), il Resegone partendo da casa in bici (del quale parlerò in un articolo apposta) e il Monte Forcellino in Valtellina, 1.500 di dislivello sulla carta, trovato in condizioni spettacolari e ripellato gli ultimi 500 metri, arrivando così a 2.000 metri di dislivello a fine giornata.
Non voglio dilungarmi troppo sulla giornata e la discesa, che ripeto, su questo sito non si parla e mai si parlerà di gite che non siano già state fatte e tritate, di vie che non siano ripetute cento volte a stagione: sono sciate normali, le mie, non mi sono ancora avventurata nel meraviglioso mondo dei canali ripidi e quando scendo puntualmente cado anche sui pendii a 20 gradi, rotolando a valle come un sasso ad ogni maledetta discesa.
Però mentre ripellavo sul Forcellino guardavo il mio Suunto che mi segna il dislivello, 1.500, 1.600, 1.900…2.000. Mi son chiesta cosa farei se mi dicessero “o altri 1.000 metri o la vita” e ho capito che non morirei di certo oggi.
Ripenso a tutte le volte in cui mi sono guardata le cosce odiandole, in cui ho semplicemente e volutamente fatto male al mio corpo per rabbia, per non corrispondenza tra questo e l’immagine che io avevo in mente del mio corpo e quelle volte sono tantissime. Ho perso la conta delle calorie che ho contato, dei pasti che ho saltato, delle volte in cui ho avuto fame, delle volte in cui mi sono allenata ben oltre il necessario ignorando totalmente i segnali di recupero che il mio corpo mi stava mandando.
Tra le tante sensazioni che ho vissuto in montagna annovero spesso quella del riguardarmi alle spalle, magari dopo una via impegnativa, una sciata di 2.000 metri, una giornata lunga e complessa e pensare che tutto quello son riuscita a farlo con la sola forza delle mie gambe, braccia e testa. Mi ricordo il rientro al Col Flambeaux dopo la Kuffner al Maudit, guardarmi alle spalle e sentirmi così minuscola di fronte ai Satelliti del Bianco, un puntino nero legato da una corda ad un altro puntino nero disperse su un ghiacciaio, sfiancate dalla salita ma lucide, salve e felici dell’esperienza, le volte in cui con lo sguardo incontro la parete del Badile e mi sembra sempre così immensa e ripenso che lì in mezzo ci ho arrampicato anche io, mi ricordo quando dopo la Gervasutti alla Punta Allievi sono scesa e la sera stessa salita a piedi al Diavolezza per fare la Kuffner ai Palù l’indomani. Quella sensazione che si ha a fine giornata, quando si riprendono gli zaini e ci si volta verso la parete e lì in mezzo, un po’ di ore prima, c’eravamo noi, che ti sembra tutto così grande e tu a confronto così ridicolo, minuscolo, impotente.
Le montagne son sempre e da sempre giganti e quando le guardi dal basso sembrano schiacciarti, sembra infinita la strada per arrivarci, immense le dimensioni delle pareti, la difficoltà delle esperienze. E non ci sono aiuti, c’è solo il nostro corpo e la nostra testa. E lo capisci solo allora, quanto sono potenti il nostro corpo e la nostra testa.
E mi viene da chiedermi scusa, per tutte le volte che mi sono odiata tanto, come se davvero ruotasse qualcosa attorno al diametro delle mie cosce.
Ci son giorni neri e giorni con diverse sfumature di grigio, quasi mai ci sono giorni davvero felici, una totale accettazione mi è negata e ho anche smesso di cercarla perché sono energie spese a vuoto. Quando mi piego ho la pancetta, comunque odiavo anche gli addominali perché ero maschiaccia, se mi alleno tanto mi vedo le braccia e le spalle più pronunciate e mi sento a disagio, anche se mi piacciono i risultati che ottengo in quei periodi. Ho le gambe da sempre molto importanti e non importano le innumerevoli volte in cui hanno resistito, senza battere ciglio, a km verticali, urti, zaini pesantissimi, pareti e giornate infinite, perché rimangono grosse e quindi le odio e nel mio percorso da donna adulta l’idea della maternità viene associata a una serie di domande esistenziali che è giusto che ci siano ma anche alla domanda “ma se poi mi faccio schifo e mi viene il fiatone a fare 500 metri?” che invece è una domanda di merda.
Io lo so che prima che arrivi un giorno in cui allo specchio mi guarderò e mi vorrò bene, avrò già due metri di terra sopra perché questo percorso non arriverà mai a compimento, è qualcosa di profondamente radicato e difficilmente ne guarirò mai davvero. Però rispetto a 15 anni fa, quando di anni ne avevo 15, scrivere qualcosa su questo tema è immenso come passo, esserne consapevole è qualcosa di gigante.
Ripenso a questi metri, sia chiaro, 2.000 metri con gli sci è nulla ma non era mai successo prima e non pensavo di farcela, o meglio: non avevo mai provato a pensare di farcela. Ma qui, oggi, ci son arrivata con queste di gambe e con questa di testa. E davvero, per quanto non riesca comunque a farci pace e mai ci riuscirò, per un momento lungo 500 metri di dislivello, questo corpo l’avrei voluto abbracciare e chiedergli immensamente scusa per gli anni passati e purtroppo anche per quelli futuri.
Non posso far altro che ringraziare il mio corpo, perché mi ha fatto scoprire il mondo ed è lo sponsor numero uno di tutte le mie avventure, perché sostiene imperterrito uno stile di vita un po’ disagiato, perché è il posto più bello dove abitare al mondo. E ringrazio la montagna che mi ha fatto concentrare, a forza, su ciò che riesco a farci col mio corpo molto più di come esso è.
Vi lascio il link al profilo Instagram di Beth Rooden, https://www.instagram.com/p/B9ZvnBmJra1/ che sul tema ne parla talmente bene che a confronto, cosa diamine l’ho scritto a fare ‘sto articolo vallaasapere.
E vi lascio anche il documentario “Light”, recentemente pubblicato, che tratta il tema in maniera davvero interessante.
Questo articolo è delicato, fragile, speciale ed è frutto di un sacco di chiacchiere con altre donne, alle quali vorrei dedicarlo, donne che ho conosciuto in montagna e con le quali, timidamente, questo tema è venuto fuori tra le righe con la pesantezza di uno stigma tramandato da secoli, donne che scalano da dio, che hanno chiuso tiri fotonici, che hanno fatto vie pazzesche, che hanno una testa che tiene botta al mondo intero, che si son odiate allo specchio tutti i giorni almeno una volta: davvero, come fate ad odiarvi tanto?
Cima del Forcellino Salendo al Forcellino Beth Rodden Beth Rodden
Grazie. Con le lacrime agli occhi.
Grazie!