Romilla – la storia di un ciliegio

Cosa c’entra una cascata di ghiaccio con un ciliegio?

Non tutti hanno la fortuna di aver avuto i nonni vicini, io ho avuto la fortuna di aver avuto nonni giovani e di esserci cresciuta, per anni, nella loro casa. La casa dei miei nonni era un posto magico, una fattoria piena di animali, orti e innumerevoli rischi di morire, ai quali sono stranamente sopravvissuta.

Sono sopravvissuta al recinto dei cavalli e sono sopravvissuta ai bagni nel canale d’irrigazione dei campi, sono sopravvissuta alle gare clandestine con lo slittino e al gioco intelligente con mio fratello del “dai fastidio al montone e scappa fuori dal recinto prima che ti ammazzi”. Sono sopravvissuta a tante cose in quel posto, comprese una serie infinita di possibili infezioni che fanno il baffo al Covid e oggi, andare in montagna e non lavarmi per tre giorni, a confronto, è comunque acqua di rose. Ma più di tutte sono sopravvissuta al ciliegio: nei giardino dei miei nonni c’era questo ciliegio piantato lì da decenni, mai realmente potato, diventato poi nella mia infanzia largo come una quercia e alto più della casa stessa. Faceva i duroni, le ciliegie quelle che son grosse come prugne. Quando d’estate andavo lì era il mio posto preferito, fino al primo ramo era un 5c direi, dal primo ramo al quarto altri 5 metri mortali, all’altezza del quarto ramo si passava sul tetto del magazzino dove nonno teneva il grano e le farine macinate, di solito mi arrampicavo sul tetto e mi ci sdraiavo.

Ho passato anni ed estati intere della mia infanzia sdraiata su un tetto in amianto a bruciarmi sotto un sole cuocente senza crema solare, con il ramo di un ciliegio a 25 cm dalla faccia, mangiando ciliegie fino a farmi venire i peggiori mal di pancia della mia vita. E sono convinta ancora oggi che quelle ciliegie, coi vermi dentro, abbiano nutrito la parte migliore di me.

Giuro che è un articolo che parla di Romilla, anche se non sembra.

Non faccio nemmeno in tempo a tornare a casa dalla Cascata di Zocca con Jorge che mi decido di proporla: so essere in condizioni e so che non ci tornerà presto, questa stagione invernale è davvero ottima. E so anche che sia Jorge che Ange vogliono farla; per me è una di quelle cascate per le quali mi gioco la carta “turista per sempre” e che penso serenamente di fare da seconda, per giunta ragliando. Però sulle cascate di ghiaccio, a differenza delle vie, ho un’idea diversa: non è detto che si riformino, che capiti l’occasione di nuovo, quando sono buone certe strutture bisogna andare a vederle.

Ci accordiamo per domenica, so che l’hanno già salita, guardo la relazione svariate volte soprattutto per la discesa che sembra più complicata della cascata stessa. Vedremo in loco. Ore 5 al Bione. Punto la sveglia prestissimo, mi alzo un po’ tanto a rallentatore e mentre cerco di buttare giù qualcosa a forza, vedo il led rosso del telefono lampeggiare, è quello dei messaggi wapp. Chi potrà mai scrivermi a quest’ora? Penso uno dei due soci e penso possa esserci stato un imprevisto.

Leggo il messaggio che invece è di mio fratello e rimango immobile nella cucina silenziosa delle 4 di una domenica mattina. Nonno, 87 anni vissuti a suon di grappe auto-distillate e sigarette senza filtro, vissuti tra agricoltura e poco altro, da tempo non stava bene e se n’è andato. “Io parto questa sera in macchina”. Rimango 5 minuti in silenzio senza la voglia nè di fare la cascata, nè di fare qualsiasi altra cosa, non t’ha ammazzato nulla per 87 anni, facessi io la sua vita non ne camperei 40, vuoi dirmi che davvero non eri immortale come pensavo, no perché credimi che l’ho seriamente pensato alcune volte.

Rispondo “vengo con te, partiamo alle 9 questa sera”.

Non parlo spesso della mia vita privata perché la ritengo tale, cioè privata, però a differenza di quello che mi chiedono spesso no, non faccio Chifu di cognome perché sono sarda e no, Smaranda non è un nome di fantasia. Quella casa e quel posto sono a 2000 km da quella che ritengo casa oggi, nella dispersa campagna del sud-est della Romania, in un posto dove non è mai arrivato Cristo che s’è notoriamente fermato a Eboli e manco l’acqua calda corrente.

Mi ritrovo sul sentiero della Val di Mello al buio, oggi già tanto che mi tiro su, non penso nemmeno un po’ alla cascata. Imbocchiamo la traccia che sale sul versante destro verso la Val Romilla, il lato oscuro della Val di Mello. Non sono mai stata su questo versante, le vie sono tutte esposte a sud e praticamente qui ci sono solo le cascate, quando si formano. Durante l’avvicinamento ridiamo ricordando con Ange di quando ero andata con lui e Michele, due anni fa, a fare Magic Mushroom: da seconda, coi ramponi Camp semiautomatici e gli scarponi Simond da escursionismo invernale. Era la mia seconda cascata nella vita e tutt’ora rimane un mistero come sia possibile che io non sia svenuta alla fine del primo tiro. Rido dicendo che rispetto ad allora son cambiati solo i ramponi, ma il mio rapporto con tutto ciò che sta sopra il quarto su ghiaccio è lo stesso di sempre: uno scempio.

Mentre risaliamo il conoide della valanga sotto Romilla, mi sale una calma davvero strana: ogni tanto penso al nonno, guardo il telefono nel caso mio fratello mi abbia scritto altro ma non prende, tolgo i dati, ormai siamo qui, cerchiamo di portarci a casa un bel ricordo di questa cascata. All’attacco in realtà mi sale come sempre un po’ di timore: qui non è un posto qualsiasi, qui è una delle cascate più storiche della Valle e no, rispetto a Magic Mushroom non sono cambiati solo i ramponi. Purtroppo la consapevolezza di ciò che si sta facendo, derivante dall’esperienza, è sì positiva ma allo stesso tempo fa aprire ancora di più gli occhi.

Certo però che a vederla da sotto, sembra davvero uno spettacolo!

Parte Jorge sui primi due tiri, quelli più impegnativi con la candela e li risolve senza troppi problemi, parto sulla candela subito dopo di lui e smadonno un po’ sul verticale, però stranamente non mi appendo. Ange sotto mi chiede se “lo ammazzo se parte”, penso si riferisca al fatto che sono lenta e voglia levarsi dalle balle dalla sosta che ha freddo, scoprirò che in realtà gli ho centrato il naso più volte triturando il ghiaccio. La tecnica rimane quella che è, cioè buona finché il braccio tiene, quando la ghisa sale la tecnica diventa sempre la stessa “triturare il ghiaccio e salvarsi o morire ma rimanere eleganti”.

Finiamo i primi due tiri e arrivo in sosta convinta che sarebbe partito Ange. Mi chiedono se voglio andare io.

No, ovvio che non voglio. Che domande sono. Dai ma siamo su Romilla, non posso nemmeno volerlo, poi su, non per fare la drammatica ma è ‘na giornata de merda, cioè, ho avuto un lutto in famiglia, non voglio fargli compagnia!

Ma mi suona una proposta che non posso rifiutare, anche volendo, guardo in alto e penso che i primi 5 metri li posso fare, dopo chi vivrà vedrà. Al massimo caino e mi fermo appena trovo del ghiaccio decente per fare una sosta. Mi lego le corde e vado avanti, dopo il primo salto Romilla si apre con uno scenario assurdo, dal basso non la vedresti mai, è come se ci fosse una seconda cascata lì dentro, rimango basita. La trovo stupenda, tra le più belle che abbia visto, sono stranamente tranquilla anche se mi sta sanguinando il naso, ma è abbastanza una prassi per me.

Recupero i due dietro e a quanto pare tocca ancora a me. Io pensavo fosse solo un giochino in cui mi fan fare un tiro per farmi divertire, poi se la sfangano loro. Oh, sto sanguinando dal naso, ho paura e m’è morto il nonno! No, non c’è verso. C’è da dire che mi sto divertendo e sto, stranamente, bene. Vado avanti su un tiro un po’ secco, sul quale Jorge commenterà dicendo “bhè anche le protezioni le hai messe bene e poche” e Ange, giustamente, aggiungerà “missà che ne ha messe poche perché s’è scordata di prendere altre viti”. In effetti per il tiro incassato, il penultimo, provo a metter dentro le viti da 15 inutilmente, il ghiaccio è troppo sottile e quindi s’ha da andare in su, mannaggia all’anima vostra, mi vedo già spiaccicata alla base. Ma se sono sopravvissuta al ciliegio, sopravvivrò anche a questi dieci metri di ghiaccio. Faccio sosta davvero contenta del tiro, guardo dall’altra parte della Valle l’arco di Kundalini, la linea di Luna e soprattutto una vista pazzesca sulla parete del Qualido: non ci avevo pensato tutto il giorno, mio nonno era del ’33, che son tipo 57 anni più di me, è tipo mezzo secolo per intenderci, nei libri di storia son due righe di un paragrafo. Insomma, non è niente. Sono appesa a due viti nel ghiaccio, in un posto che io identifico come casa. Chissà se glielo avessero detto, quado mi aveva costruito lo slittino più potente del pianeta, 25 anni fa, che sarei finita per vivere così lontano da quel ciliegio e chissà se quando il ciliegio è seccato e l’hanno tagliato, se l’hanno mai capito che per quanto distante nello spazio e soprattutto nel tempo io sia finita rispetto a loro, non so perché ma ho la sensazione che se non fosse stato per loro, appesa a due viti nel ghiaccio non ci sarei mai stata così bene.

Recupero Jorge e Ange e lascio ad Ange l’ultimo tiro, per nulla banale e da pulire: va bene tutto ma io oggi volevo fare l’amica-zaino portata su. Ci ritroviamo in cima alla cascata e scendiamo alla base con 5 doppie, all’una siamo di nuovo agli zaini!

Finiamo con le birre alla macchina e ringrazio in cuor mio i soci per la giornata, speciale davvero.

Nonno, tu queste cose non le vedrai mai, purtroppo. Ma non le avrei viste mai nemmeno io, senza di voi. E alla fine di quella casa e di quel posto rimarrà ben poco, non c’è più il ciliegio, non ci sei più tu, un giorno non ci sarà più nemmeno nonna, non ci sono più i cavalli ed è lontanissimo nel tempo il ricordo di te che mi portavi in braccio sul trattore. E son tutte cose alle quali ancorarsi serve a nulla. Ho imparato che non è tenendole in vita col respiratore che le cose rimangono vive, siamo fiumi, corsi d’acqua che scorrono e non stagni, eri un fiume tu e ti sei riversato in me e l’unica cosa che posso fare è essere grata dello spirito d’avventura che mi avete trasmesso sempre, del quale nemmeno vi siete mai resi conto. L’unica cosa che posso fare è essere grata di quel ciliegio sul quale ho rischiato la vita arrampicandomi, senza il quale, in qualche modo, Romilla non l’avrei mai fatta.

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