Uno può sforzarsi quanto vuole, di trovare il bello in ogni cosa, di pensare che dal letame nascano i fiori mentre dal diamante non nasce niente, però stando a questo assioma, nel 2020 avrei dovuto ritrovarmi un campo di rose in giardino e così non è stato.
Perché a volte è più liberatorio dirsi le cose come stanno, tipo che questo è davvero un anno mediamente di merda, con picchi molto intensi.
Comunque ci siamo adattati, ai posti di casa (non che non li abbia mai apprezzati), allo stare vicino e cercare il bello nelle cose. Diciamo che se Cristo si è fermato a Eboli, il Covid invece si è fermato sotto quota 800. E io sono come il vecchio di Moby Dick, quando sono triste invece che prendere il mare, io prendo la montagna.
Non mi piace pensare alla montagna come ad un rifugio dove scappare perché vorrebbe dire che c’è qualcosa da cui scappare. Però ammetto che quest’anno, più di tante altre volte, è stata e diventata un rifugio, un posto dove nascondersi, la casa sull’albero, il nascondiglio felice, un posto dove non arrivassero le notizie, il rumore, i lockdown, dove per un secondo ci fosse pace. E forse questa è la cosa che più ho cercato nelle giornate in montagna quest’anno: la pace, la tranquillità, la futilità di una tacca che per un pomeriggio almeno fosse al centro della mia attenzione al punto da zittire tutto quanto il resto.
Più o meno queste le premesse con le quali sono finita alla Pala dell’Eretico, una falesia sopra Civate chiodata dal CAI di Seregno qualche anno fa, uno specchio di calcare che trovo davvero particolare e bello. Bisogna arrivare fino all’Abbazia di San Pietro al Monte, poi seguendo il sentiero che parte dietro e seguendo le indicazioni per la falesia, risalire su traccia per pendio a 40 gradi, stile Indiana Jones, che fa venire voglia di lockdown totale che almeno pensi “me ne stavo a casa che c’avevo la scusa per non subire questa via crucis”. In cima al Golgota, quando hai espiato tutti i peccati e t’è passata la voglia di scalare ma anche quella di vivere, finalmente lei: la falesia!
I tiri non sono tantissimi, principalmente in zona 6c/7a. Di fatto c’è uno scaldo di 6a e poi si sale subito di grado. I tiri sono tutti in placca, una placca che comunque trovo molto particolare, invece delle solite tacche è come se la roccia fosse letteralmente graffiata, in sostanza è la fiera dei verticali. E, al di là dei singoli movimenti più o meno intensi, i tiri sono senza riposo mentale dall’inizio alla fine.
Che forse è quello di cui avevo bisogno, qualcosa che richiedesse così tanta concentrazione da annullare il mondo. Qualcosa che fosse così bello da farti dimenticare il resto. Qualcosa che fosse davvero un fiore, in mezzo al letame. E’ andata così, peccato per altro che di solito c’è l’incontro annuale dei seregnesi ogni anno a dicembre, in questa falesia, che chiaramente quest’anno non si farà. Però in quanto a falesie poco frequentate, poco unte e davvero belle, ha tanto da dire!
E comunque, lontano dal mondo e per un attimo, lontano da tutti, ci ho chiuso un tiro proprio bello. Ma più bello del tiro stesso, c’è che mentre scalavo, per quei 30 metri di roccia, per quei 20 minuti di piedi sulle uova, in quel frangente lì, tutto quest’anno per un momento è sembrato davvero sparire. Una bolla di felicità che puntualmente si infrange contro la catena, che puntualmente avresti voluto che nel tuo cervello, per sempre, ci fosse solo quel momento lì e tutto il resto rimanesse fuori.
Comunque io scendo dai 6c con la faccia della Hayes quando ha chiuso La Rambla. Non potete capire la gioia.
Arrampicare è una successione di lunghi istanti, di momenti, di paura e sensazioni positive mischiate insieme. Comunque per un secondo, uno soltanto di orologio, quel momento sembra eterno.
Sembra indistruttibile.
Sembra, per fortuna, la cosa più importante del mondo, così importante che per un secondo, uno soltanto di orologio, ti dimentichi davvero di tutto il resto, ti dimentichi perfino del 2020.
ps: non ho foto, però c’è l’articolo di Ange dell’inaugurazione del 2014 nel quale ce ne sono un bel po’!