Ricapitolando un po’ l’estate: su roccia marcia in Dolomiti, senza protezioni, ci siamo andati (e volevo piangere), su granito ci siamo andati, nel camino di Polimagò e sulle fessure di Kundalini con la corda sotto il sedere credo di aver davvero pianto, sul traverso e in placca non me lo ricordo ma forse è perché ero proprio svenuta, in Val Masino sul V grado lichenoso ho fatto la doppietta di volo in via, sul Bianco qualcosa abbiamo fatto, ma quel granito lì, rosso e scivoloso, ispira mica fiducia, poi sai che noia il fiatone a 4.000.
Quindi la placca di granito no, sei matto quelli spalmi atroci, la roccia rotta eh hai tutto ma ti cade addosso il mondo, le fessure di granito sì dai alla fine “ti proteggi bene”, finché non prendi in mano quattro friend che sembra il gioco del mazzo di chiavi che non azzecchi mai quello giusto fino all’ultimo tentativo, alla fine rinunci, hai perso dieci anni di vita e dieci minuti appeso su un braccio solo a ravanare sull’imbrago e alla fine vai avanti con praticamente tutti i sessanta metri di corda libera sotto; sei partito ateo e arrivi in sosta credendo in qualsiasi divinità.
Allora mi sono detta, proviamo la placca tecnica di calcare compatto!
Era un po’ che io e Ange volevamo farci un paio di giorni in giro, io per arrivare vicino alla morte, lui per rilassarsi, obiettivi sempre comuni! Così gli ho proposto Briançon, e niente, mi sono ritrovata inchiodata tra uno spit e l’altro come un gatto su una lavagna. Volevo fare alpinismo ma direi che me la cavo meglio coi gradi della birra!
Abbiamo fatto una specie di trilogia.
Il primo giorno siamo andati alla Tour Termier, facendo le Ponant Neuf, arriviamo la sera su al passo e, nonostante dicessero che Briançon è uno di quei posti al mondo dove non piove mai, quando ci vado io sicuro che diluvia. Quindi abbiamo passato una divertentissima serata in macchina a mangiare cibo inscatolato per non dover accendere fornetto e stare fuori, abbiamo dormito circa 23 minuti tutta la notte perché non ci è venuto in mente, data la quota e il meteo, che potessero esserci 5 gradi di notte, quindi siamo schiattati di freddo e di umidità. Ci siamo alzati freschi come due rose appassite e siamo andati a fare questa via, diciamo di scaldo. Parte Ange, mi tocca il secondo tiro, un 6a+ di placca con rinviata fatale, per poco non svengo, seguono altri sette tiri umani (quelli disumani li fa Ange), piumino, freddo, doppie, incastro di corda con botta di culo dei francesi in via esattamente sul tiro dove si è incastrata che ce la mandano giù, io e Ange che elargiamo comunque insulti ai francesi perché fa sempre bene fomentare un po’ di luoghi comuni, doccia in un fiume ghiacciato con pescatore che ci guarda perplesso e birra. E altra birra. E altra birra.
Lo chiamerei il buono. Insomma, quelle vie che tutto sommato va tutto bene, il giorno dopo non ricordi già più dove hai rischiato di morire, ti fanno credere di essere in grado di combinare qualcosa, ti illudono e ti riempiono di false speranze.
Infatti già il giorno dopo scendiamo di quota, ci addormentiamo come gli orsi in letargo in una piazzola a bordo strada, con qualsiasi indumento stratificato addosso compreso il piumino, va un po’ meglio, ci alziamo e andiamo verso la Tete Colombe, dove faremo Le Bal des Boucas. Sulla carta sono 11 tiri piuttosto continui sul 6a (più?). Obbligati, tecnici, gradati manica stretta, quelle cose dove se sai arrampicare ti diverti pure altrimenti scendi dai tiri e li lasci ai cavalli, tipo Ange, che invece se li fanno con serenità e poi finito, ti dicono pure che sei salito bene. Grazieal. Con la corda dall’alto son bravi tutti sulle placche! Sul tiro chiave, un 6b, ho pure sbagliato l’uscita e mi sono appesa. Effettivamente è un tipo di via e di roccia che non avevo ancora sperimentato, ci va un po’ più di testa, perché in sè i movimenti li ho trovati elegantissimi e davvero godibili, la roccia una lezione di geologia, uno spettacolo davvero. I tiri sono un’ampia scelta tra “duro e obbligato ma non fatale” oppure “fattibile con due spit in 30 metri”. L’obbligato è obbligato, tra uno spit e l’altro i metri ci sono e vanno fatti con serenità, Ange come sempre dichiara il falso, dicendo di essere stanco per poi variare tra il “sereno a vista fischiettando” e il “fischiettando e basta”, ormai lo conosco e non gli credo più, anche se averlo visto appeso un paio di volte (di numero) mi ha quasi fatto piacere, sennò davvero sai la frustrazione! Quando finiamo la via, con un ultimo tiro sulla carta “facili placche e divertenti lame”, ormai nel mio cervello c’è poca differenza tra il 5b e il 6b, divertente magari sì ma di facile qua non ho trovato nemmeno l’avvicinamento.
Lo chiamerei il cattivo. Insomma, quelle vie che sono belle e impossibili, con la roccia bella e gli spit da desiderare. Son quelle vie che ti fanno capire la differenza tra scalare e arrivare in sosta, io faccio la seconda, Ange mi fa venire il nervoso, bravo davvero come sempre, la via è tutta sua direi. E birra per festeggiare. E doccia in un lago ghiacciato. E strappo a due autostoppisti circensi di Barcellona in viaggio per organizzare un festival in zona (?).
Come terza via decidiamo di scendere ancora più a valle, salire questa sterrata di 15 minuti circa che porta al parcheggio da dove parte il sentiero per quella che secondo me, nella zona, è la parete più bella: la Tete D’Aval, famosa per Ranxerox, una simpatica via di 19 tiri di 7a (6b obbl.). Ovviamente noi non abbiamo fatto quella. Abbiamo fatto Hebdo al Piller Rouge, piller così rouge e così a sud che la roccia al secondo tiro era pronta per farci su le salamelle, al terzo ci fumavano le scarpette, al quarto, un diedro meraviglioso, quando sono passata in una micro zona di ombra mi ci sono fermata per un minuto buono, poi un delirio, io su un altro diedro, tiro di raccordo, Ange che parte per il chiave (un diedro giallo e unto e rovente di 6b), usciamo le staffe, tiriamo più rinvii che possiamo, io faccio il 6b con le scarpe perché se vedo ancora le Miura a momenti vomito dal dolore ai piedi, facciamo un altro tiro testando le fettucce dei rinvii e poi in teoria ne mancavano un paio facili a salire sulla cima vera e propria ma, paghi ormai della ravanata epica e di aver fatto il duro, distrutti e consumati dal sole che nemmeno dopo la traversata del Sahara, schiaffiamo un moschettone in sosta e giù doppie fino alla base, perché soffrire è bello, staffare di più ma farsi una cengia di corde fisse per riprendere gli zaini è illegale. Rientriamo e poco dopo, sul sentiero, per fortuna c’è una sorgente d’acqua nella quale ritroviamo la felicità, la fede e una forma di vita dentro di noi, il momento più intenso della giornata.
Lo chiamerei il brutto. Povera via, poi non è affatto brutta, anzi, è di stampo classico, un gran diedro alla fine, 12 tiri davvero belli, il 6b per chi volesse saperlo è azzerabile: provato, testato e certificato, insomma, forse abbiamo anche toccato della roccia su questa via, ma non ne ho bene memoria! Però c’è poco da dire, con una temperatura percepita di 30-35 gradi, è stato una gran ravanata! Concludiamo degnamente con un altro bagno in fiumi di montagna da arresto cardiaco, vino rosso di qualità da 5 euro la bottiglia che non ci transita nemmeno dal fegato date le nostre condizioni, chiacchiere e svenimento.
C’è poco da dire, alpinisticamente parlando c’entriamo come cavoli a merenda, credo ci accomuni il modo di vedere e vivere la montagna, di sicuro non le cose che riusciamo a fare o gli obiettivi. Non mi è mai piaciuto troppo farmi portare da quelli bravi a fare esperienze per nulla ancora mie, quindi grazie, da quelli così c’è solo da imparare. Abbiamo scoperto un altro posto e personalmente ho passato un po’ di tempo insieme ad una delle persone che più stimo in giro per i monti.