La sensazione che prevale, quando rientro a casa dopo certe esperienze, è di essere stata via per settimane o forse mesi. Penso questo mentre gli occhi si abituano al buio che pian piano prende il posto della luce e dal sentiero che scende dal Diavolezza intravedo la macchina in lontananza: finalmente, quasi quasi ora posso davvero lasciarmi svenire dalla fatica, mollare finalmente il colpo, disattivarmi. Ce l’ho fatta, questa volta ha funzionato, era un po’ che non succedeva.
Le premesse: lunedì sera mi trovo con Ale in Cornarossa, una falesia che trovo molto dura, tant’è che mi regala una secchiata di autostima riuscendo ad appendermi sul tiro di scaldo! Martedì sera decido di andare a fare due passi con la frontale e insieme a Edo salgo da Erna sul Resegone. E sono 1.300 mt. di dislivello. Mercoledì siamo organizzati per fare un volo in parapendio al tramonto e subito dopo mi ritrovo in macchina con Ange diretti verso la Val Masino, ci ritroveremo giovedì mattina a salire in Gianetti per fare Polident al Dente della Vecchia, sul sentiero di ritorno ho già un embrione dei giorni successivi in testa e sentire le gambe pesanti mi fa un po’ preoccupare, ma quasi non ci penso su. Mi lavo nel fiume gelido, mi cambio, guido per due ore in autostrada e vado ad una cena come se la giornata fosse stata normale. E sono 2.700 mt. di dislivello e una via. Torno a casa e venerdì sera mi ritrovo, come dèjà vu, di nuovo a parcheggiare a San Martino: con Claudio avevamo rimandato una salita in Allievi la scorsa settimana causa maltempo e non ci sono scuse, saliamo con la frontale ed un vento patagonico in Allievi e ci concediamo la notte al rifugio, unico lusso razionale che avrò in questi giorni di follia. E sono 3.200 metri di dislivello e una via. Al mattino ci ritroviamo all’attacco della Gervasutti alla Punta Allievi con una temperatura di 5 gradi, direi l’ideale per una gran ragliata, cosa che succederà dato che scaleremo col piumino e ci perderemo in via, ma di tutte queste esperienze parlerò in un secondo momento. Perché queste sono solo le premesse della follia. Scendiamo dall’Allievi sabato quasi verso sera, ci concediamo una birra al Bar Monica, nemmeno il tempo di rilassarci e siamo già di nuovo in macchina in direzione Pontresina.
Alle 20 parcheggiamo alla funivia del Diavolezza.
Alle 22 raggiungiamo Edo, Ale ed Ermes che erano saliti in funivia e ai quali, ad onor del vero, avevamo già lasciato il nostro materiale da ghiaccio e da bivacco. Comunque il sentiero a salire, anche con lo zaino leggero, ci stronca dopo pochissimi metri, arriveremo alle tende con un deficit calorico esagerato. Ci faranno trovare le tende già montate e un ottimo risotto liofilizzato che non masticheremo nemmeno! E sono 4.100 metri di dislivello e due vie.
Al mattino mi alzo con la consapevolezza di affrontare ogni singolo metro che mi aspetta come una storia a sè. Sul sentiero che va verso la morena del ghiacciaio sono un po’ lenta, ma decido di dosare bene le energie che sento di avere ancora: oggi punto alla resistenza a lungo termine. Sulla morena mi lego con Claudio mentre gli altri tre faranno cordata tra di loro. Quando il sole illumina i tre speroni mi pervade un senso a metà tra lo stupore e la paura. “Testa lucida” mi ripeto, mentre camminiamo sul ghiacciaio verso l’attacco. E la testa deve davvero essere lucida, il terreno di gioco oggi non è semplice in nessuno dei suoi aspetti, i crepacci dell’avvicinamento mi danno già la tara della giornata! Quando finalmente ci ritroviamo all’attacco quasi mi sento sollevata di toccare nuovamente la roccia! E sono 4.700 metri di dislivello e due vie. Li sento tutti, ma decido di mettere quella sensazione in un angolo, ci sarà tempo per l’acido lattico domani, non ora!
La via in sè è magnifica, ce l’avevo in mente da tanto e ogni metro alimenta la mia gioia; la Bumiller di fianco mi sembra davvero impressionante, chissà se mai arriverà il suo giorno! Progrediamo bene, godendocela, facciamo molti metri in conserva e altri più delicati facendo qualche sosta, soprattutto sui tiri oltre il gendarme col passo chiave (che Claudio riesce quasi a liberare con gli scarponi, sarebbe stato davvero un gran bel colpo e sono sicura ce l’avrebbe fatta con un po’ più di riposo all’attivo!). Troveremo i “tiri” dopo leggermente innevati/verglassati/bagnati, con gli scarponi e i guanti, il piumino, la picca, i ramponi e lo zaino dietro, sul IV grado con un po’ di neve non è così scontato andare avanti e una caduta su quel genere di terreno non è nemmeno da prendere in considerazione, quindi decidiamo di rallentare un po’ e fare qualche sosta in più! Sembra vicina, invece la cresta ha uno sviluppo da non sottovalutare e ce n’è ancora di strada da fare! La stanchezza è tale da impormi di fare sforzi molto soppesati, complice anche la quota, ogni “strappo” mi costa caro. Però ho ancora le energie per guardarmi attorno, pian piano vedo i seracchi sopra la Bumiller, la cresta nevosa che si avvicina, quando mi guardo indietro e vedo la morena del ghiacciaio che scende verso Morteratsch mi si mozza il fiato, e no, questa volta non è la quota, la vista è di una bellezza imbarazzante, esagerata, talmente magica da non lasciare spazio a nessun altro tipo di sensazione se non l’immensa gratitudine che provo e la consapevolezza che tutte le bastonate che ho preso nell’ultimo periodo hanno sicuramente contribuito a rendere quel momento ancora più speciale.
Nonostante la fatica che sto ormai provando, nonostante abbia ancora pensieri in testa sulla cresta nevosa finale e il rientro, nonostante il freddo che ho preso, il vento, le mani congelate e insanguinate, i lividi che una volta a casa mi sembreranno una stellata viola sulle mie gambe, nonostante tutto, in quel momento appoggiata contro un sasso in mezzo allo sperone Kuffner a guardare quella morena, sentire il rumore della montagna e del ghiacciaio, vedere i miei amici poco sotto di me, in quei cinque secondi di pace che mi concedo capisco che non vorrei essere in nessun altro posto al mondo in quel momento se non esattamente dove mi trovo. E che questa particolare sensazione è la chiave di volta che mi dà la risposta a tante domande.
Quando arriviamo alla cresta finale di neve, al di là dell’averla trovata di ghiaccio più che di neve (tanto per regalarci la ciliegina sulla torta e non permetterci di rilassarci nemmeno per un secondo), mentre salgo guardandomi le punte dei ramponi e stando attenta a non combinare qualche disastro sul più bello, mi assale una sensazione che capisco essere un denominatore delle giornate davvero speciali: tra poco sarà tutto finito, alzo lo sguardo e vedo l’impennata finale della cresta, mancheranno meno di cento metri, c’è una parte di me che vorrebbe non finisse mai, che vorrebbe congelare quel momento per sempre, rimanere lì un po’, un po’ di più.
Arriviamo in cima non proprio presto, in via c’erano numerose cordate e poi ce la siamo presa con calma, purtroppo mi giro e vedo dei puntini colorati che a mal appena distinguo, gli altri tre insieme a noi sono parecchio indietro, non sono riusciti a superare altre due cordate davanti a loro e ci metteranno decisamente più tempo a uscire dalla via. Io e Claudio abbiamo un lampo di razionalità e iniziamo in men che non si dica, letteralmente, a correre giù dalla normale con l’obiettivo di arrivare a disfare tende e sistemare tutto per prendere l’ultima funivia, gli altri non ce la faranno mai ma almeno portiamo giù il materiale! Ci fermiamo giusto per farci sicura su un bel crepo da manuale: una campana spaventosa col ponte crollato che ci richiede un salto nel vuoto di più di un metro. Ci viene quasi da ridere, siamo davvero alla frutta, vorrei spegnere il cervello ma stiamo andando giù di corsa e allo stesso tempo vorrei evitare di ritrovarci sul fondo di un crepaccio o giù da qualche crestina di neve! Una volta sul sentiero di roccia capiamo che in realtà non avremmo comunque fatto in tempo a smontare tutto e correre dall’altra parte alla funivia! Molliamo il colpo, beviamo un po’ di acqua raccolta tra le rocce, arriviamo con calma e iniziamo a sistemare il materiale. By fair means direi. ‘Sta volta un po’ meno volontariamente ma quasi mi viene da sorridere.
Divido il materiale in modo che ognuno abbia un peso più o meno equo da riportare giù e finalmente mi sdraio, il sole diventa aranciato e illumina i tre speroni. Capisco che è successo solo in quel momento e mi viene un brivido lungo la schiena per l’emozione.
Quando finalmente arrivano anche gli altri (che sono sollevata a riabbracciare, scoprirò che Ale ha anche perso la picca in via, per fortuna riuscendo a recuperarla!) iniziamo una tediosa, lenta e invitante discesa a piedi! Non posso far altro che ridere, scherzarci sopra, un po’ mi isolo nei miei pensieri un po’ mi gusto questo momento di follia.
Arriveremo a casa ad un orario improponibile, mi ritroverò a farmi una specie di risotto a mezzanotte, con una fame atavica.
Sono 5.600 metri di dislivello circa, di cui circa 800 di misto, non so davvero quanti km e nemmeno lo voglio sapere, ho bevuto acqua da un sasso con il muschio e scavando sotto ad un sasso con la sabbia, preso vento, preso freddo, sono volata sulla Gervasutti per colpa di un microonde di 50 kg di granito marcio che mi è rimasto in mano (per fortuna senza conseguenze), ho pensato di essere totalmente scema più o meno ogni ora negli ultimi giorni, ma sì, rifarei esattamente tutto, per quel momento ferma sulla Kuffner in cui ammetto senza vergogna di essermi ritrovata gli occhi lucidi di emozione, per quel singolo istante che da solo sa rendere giustizia a tutto il resto.
Grazie.